La credenza del pensiero positivo. Aiuto o trappola?

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“Per essere felice devi pensare positivo”

Quanti messaggi di questo tipo riceviamo quotidianamente? Quanti slogan che inneggiano alla positività come garanzia di benessere? Quante ricette precostituite che ci illustrano come sostenere il pensiero positivo? Lasciatemelo dire: forse troppi e con il rischio di cadere in una trappola.  

Certamente la modalità con cui leggiamo quello che ci accade e le credenze che abbiamo, vanno ad influire sul nostro modo di rapportarci con l’esterno e di gestire le situazioni così come sull’idea che abbiamo di noi stessi e del nostro essere nel mondo. Tuttavia, esaltare il concetto di positività come strada maestra per la serenità ed il benessere personale rischia di diventare fuorviante se non addirittura tossico.

Perché tossico? Perché un atteggiamento eccessivamente positivo non permette di riconoscere quanto stiamo vivendo realmente, porta alla negazione di ogni emozione non classificata come positiva, favorisce la credenza che ignorando fragilità, emozioni scomode e parti della nostra vita che non funzionano, queste “per magia” potranno scomparire e noi saremo molto più felici.

L’approccio dell’essere positivi ad ogni costo, quindi, potrebbe rivelarsi non propriamente vincente rischiando di andare a minare l’equilibrio psico-fisico perché:

– può alterare il principio di realtà scotomizzando una parte di realtà che viene negata ed incorrendo in un processo di semplificazione dell’esperienza umana;

– favorisce l’uso del pensiero magico del tipo “se non ci penso, non esiste” che se usato in modo rigido non favorisce la capacità di adattamento alla realtà;

– porta ad evitare il contatto con noi stessi, nelle nostre parti più piacevoli e più sofferenti, e la consapevolezza di quanto ci sta accadendo limitando la conoscenza del funzionamento personale;

– porta a soffocare le emozioni che si provano, soprattutto quelle classificate come “negative” con un impoverimento dell’esperienza ed il rischio di sentirsi sbagliati perché si sperimenta quel tipo di emozione;

– può essere usato come modalità di difesa abituale rispetto ad aspetti ed emozioni con cui è difficile confrontarsi.

In realtà, se vogliamo promuovere il nostro benessere, abbiamo bisogno di prendere contatto con le nostre parti più fragili senza soffocarle o vederle come “sbagliate” e di ascoltare anche le emozioni considerate meno piacevoli, abbiamo il diritto di dirci che stiamo male e di sentirci liberi di esprimere e condividere questi aspetti anche con gli altri senza timore di essere giudicati.

Partire da sé stessi, dalla consapevolezza e dalla conoscenza di sé è il dono più prezioso, è ciò che ci permette di poter raggiungere la serenità e di vivere in modo armonico. Questo cosa può significare?

– riconoscere, accogliere ed accettare anche le nostre fragilità ed avere una visione realistica di noi stessi senza pensare di dover essere sempre forti e prestanti;

– fare i conti con la gamma di emozioni che ci attraversa e con la complessità della nostra condizione di esseri umani;

– evitare di classificare le emozioni in “buone” e “cattive”. Non esistono in assoluto emozioni buone o cattive, emozioni di serie A o di serie B. Tutte le emozioni hanno un significato ed un’utilità e riconoscerle significa anche poterle gestire. Provare rabbia, tristezza, dolore è altrettanto importante che sperimentare serenità e gioia. E’ la capacità di trovare un equilibrio tra di esse che permette di raggiungere una reale condizione di benessere;

– accettare che non tutti i momenti della nostra vita sono uguali, che ci sono alti e bassi fisiologici e non, che noi stessi non siamo, fortunatamente, sempre gli stessi. Solo questa accettazione ci può predisporre a gestire tutto questo senza rischiare di rimanere incastrati in modelli idealizzati (e quindi distanti dalla realtà) o intrappolati in sensazioni di frustrazione e inadeguatezzaperché non riusciamo a rispondere a determinati standard considerati accettabili.

Può sembrare un lavoro faticoso tutto questo, ma ne vale la pena ve lo assicuro. Di certo, non è sempre facile fare i conti con noi stessi e con quello che ci accade. Come esseri umani siamo portati a cercare di fuggire da quello che percepiamo come pericolo e ci fa stare male. In alcuni momenti accade di rimandare, non voler pensare, ricorrere all’evitamento. Il vero problema si presenta quando questi diventano i meccanismi di funzionamento privilegiati che ci mantengono sempre distanti da una parte di noi e della nostra quotidianità.  Sostenere l’ideale della felicità ad ogni costo può avere un prezzo molto caro. Ad esempio, aspetti rimasti inelaborati od evitati continuamente, possono riemergere anche a distanza di tempo ed in forma più pesante; emozioni soffocate perché considerate sconvenienti, possono ripresentarsi sotto forma di sintomo; non accettare parti fragili di sé e cercare di negarle può portare a vivere un senso di insoddisfazione cronica o a spostare sull’esterno la causa del proprio disagio.  

Questo vale anche nel rapporto con le altre persone. In una società che promuove la felicità e la positività ad ogni costo rischiamo di sentirci sbagliati e di cadere in trappole fonte di frustrazione, insoddisfazione e senso di inadeguatezza personale e relazionale. Ci accompagna l’idea che le persone positive piacciano di più e questo può spingerci a nascondere agli altri le nostre fragilità o i nostri momenti bui. Se però questa diventa una modalità relazionale abituale, rischiamo di impoverire la qualità delle nostre relazioni, di sostenere un ruolo che ci allontana dagli altri e di sentirci costantemente incompresi. Ed è proprio lavorando su noi stessi che possiamo modificare anche il nostro rapporto con gli altri. Come? Ad esempio, mettendo in dubbio la mia credenza sul “se sono una persona sempre positiva, piaccio di più” e fare i conti con il mio timore del giudizio. E se davanti ad una nostra apertura, troviamo risposte del tipo “pensa in modo positivo”, “vedila diversamente” non sentiamoci sbagliati noi, ma proviamo a chiederci come mai i nostri contenuti suscitano una reazione simile nell’altro. Possiamo anche farglielo notare: in questo modo diamo anche all’altro l’occasione di interrogarsi su di sé.

Come avrete capito, non esistono ricette precostituite per la serenità e l’equilibrio personale. Ma se dovessi scegliere tre ingredienti per promuovere il benessere personale, direi: individualità e storia personale, consapevolezza di sé e contatto con le proprie emozioni.

Il pensiero positivo può aiutarci nella vita se sostenuto dalla consapevolezza di noi stessi; altrimenti, meglio liberarsene ed evitare di restarne intrappolati ricordandoci che “Io penso positivo ma non vuol dire che non ci vedo” (Jovanotti).

Dott.ssa Francesca Zerbi

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